venerdì 25 maggio 2018

THE SUMMIT K2

IL DOCUMENTARIO SUL DISASTRO DEL K2

No, questa settimana niente escursione, niente umorismo ed esagerazione comica. Ogni tanto anche qui su questo blog è tempo di serietà, di storie tristi. Oggi è quel tempo. Oggi è tempo di parlare di The Summit K2, il documentario sul disastro del K2 del 2008.

Fonte: 4actionsport

Il K2, cos’è davvero


Prima di parlare di The Summit K2, che a conti fatti è stato il primo documentario sulla montagna che ho mai visto, facciamo un po’ di chiarezza su questo signor K2. 

Se siete approdati su questo blog è supponibile che una star come il K2 la conosciate, o per lo meno lo abbiate già sentito nominare. Probabilmente saprete che è il secondo monte più alto del mondo con i suoi 8.609 metri e forse saprete che il gruppo montuoso dove si trova si chiama Karakorum e che è al confine tra Pakistan e Cina (più o meno, adesso non stiamo a cavillare troppo geograficamente con regioni e zone autonome).

Forse, però, non sapete che il nome K2 glielo ha dato il colonnello Thomas George Montgomerie nel 1856, quando prese parte (il colonnello non il K2) alla spedizione del geografo Henry Haversham Godwin-Austen per effettuare i primi rilevamenti. E vi siete mai chiesti perché proprio quel 2? Scommetto che credete sia perché è il secondo monte più alto del monte, vero?! Sbagliato! Il due stava per “seconda cima più alta del Karakorum. E sì: nel 1856 si erano sbagliati a misurare l’altezza dei vari monti e si erano convinti che fosse il Masherbrum la vetta più alta del Karakorum. Lo avete mai sentito nominare il Masherbrum? No? E sapete perché? Perché è molto, ma molto più basso del K2: non è neanche la terza o la quarta cima più alta del mondo. Insomma, avevano toppato di brutto. Ma appunto perché il K2 è la seconda cima sulla Terra il due è rimasto. 


Per amor di cronaca, però, va detto che non è mica l’unico nome che ha: lo potete chiamare anche Monte Godwin-Austen, Dapsang o ChogoRi, che in lingua balti significa grande montagna. E se per caso sentite parlare di una certa montagna degli italiani sappiate che parlano sempre di lui perché i primi a conquistare questo colosso indomito furono proprio gli italiani il 31 luglio 1954 nelle figure di Achille Compagnoni e Lino Lacedelli grazie a un’impresa incredibile di Walter Bonatti, che nella notte precedente alla conquista fu costretto a bivaccare a 8000 metri d’altezza dopo aver portato a quell’altitudine le bombole d’ossigeno necessarie per il tentativo di vetta (fatto che avrebbe poi generato la grande oscenità alpinistica che è passata alla storia come il caso K2).

Il nome che, però, spiega perché ho fatto tutta questa diserzione sul K2 è “la Montagna Selvaggia”. È chiamato così per la sua difficoltà alpinistica e per la sua mortalità: infatti il rapporto tra vittime e alpinisti che hanno conquistato la vetta è di 1 su 4 e tra gli ottomila ha il terzo tasso più alto di mortalità di scalata dopo l’Annapurna e il Nanga Parbat. Questo perché i suoi versanti sono estremamente ripidi, c’è una presenza costante di tratti di arrampicata e di passaggi alpinistici veramente impegnativi e pericolosi ed è quasi totalmente assente di posti adatti ad un campo.

Insomma il K2 sarà anche la seconda vetta al mondo, ma in fatto di ostilità all’uomo è la prima in assoluto. Un evento come quello raccontato in Ascension, un inesperto che arriva in vetta senza troppe difficoltà, sul K2 non capiterebbe mai. Andare sul K2, invece, è una sfida costante che sposta vertiginosamente l’asticella del rischio di morire. Non per niente la montagna degli italiani è rimasta l’unico ottomila a non essere stato conquistato di inverno. Un motivo ci sarà no?! Neppure Denis Urubko, uno dei migliori alpinisti in vita, è riuscito a conquistarlo questo inverno.

Il K2. Fonte: Wikimedia

Il disastro del K2 


Ora che vi ho spiegato perché le morti sono quasi all’ordine del giorno sul ChogoRi torniamo a noi: cos’è questo disastro del K2? Ovviamente è una tragedia. Una di quelle che quando vai in montagna, in un angoletto remoto della tua mente, sai che potrebbe succedere, ma così, di queste dimensioni, credi che non accada… non a te per lo meno. 

Era il 1 agosto 2008. Se ci penso io non lo so cosa stavo facendo quel giorno. 25 persone di 8 nazionalità diverse, invece, stavano tentando la vetta della Montagna Selvaggia in uno dei pochi giorni sereni da settimane. Quella mattina, alle 3 quando partirono da campo 4, tutti erano pronti a giurare che quello fosse il giorno perfetto. Si sbagliavano.

Per prima cosa erano in troppi a tentare la salita. Ne abbiamo già parlato con il film Everest: la fila su un ottomila può essere letale. Inoltre le corde fisse erano state montate male. Per questo procedevano lentamente. Tanto lentamente che arrivarono quasi tutti in vetta troppo tardi, unica eccezione lo spagnolo Alberto Zerain che raggiunse la cima in stile alpino alle 15 e in serata era già al campo 3. I norvegesi, invece, arrivarono alle 17.20, i coreani alle 17.30 e gli olandesi e Marco Confortola, unico italiano, arrivarono per le 18.30/19.30 (secondo alcuni addirittura alle 20).

Insomma quando scese la sera c’erano ancora 18 alpinisti in vetta. 18 perché due erano già morti. Il primo è stato il serbo Dren Mandic a causa di un errore fatale: tentare di superare un compagno senza essere assicurato. Così, vicino al collo di bottiglia, scivola e precipita. Il secondo è il suo portatore, di cui mi spiace non sapere il nome, che precipita a sua volta nel tentativo di riportare il corpo di Mandic a campo 4.

Alle 20.30 è invece il turno del norvegese Rolf Bae, che non aveva raggiunto la cima, e poco dopo del francese Hugues d’Aubarede. Il primo portato via dal distacco di una parte del seracco che insiste sul collo di bottiglia (forse il punto più pericoloso del K2 con il suo seracco alto 100 metri), il secondo precipitato poco dopo il traverso per colpa della stanchezza.

Le vittime a questo punto sono 4. Prima che la vicenda si concluda saliranno a 11. La notte ormai ha colto gli alpinisti in pieno tentativo di discesa. Alcuni decidono di proseguire nonostante tutto, qualcuno (Confortola, l’irlandese McDonnel e l’olandese van Rooijen) decidono di bivaccare aspettando l’alba. Alle 6, con un principio di cecità in corso, van Rooijen parte da solo verso il campo 4. Poco dopo partono anche McDonnel e Confortola che però si fermano a soccorrere due coreani e il portatore nepalese Jumic Bhote che, nel tentativo di discesa notturna, sono scivolati e rimasti appesi a testa in giù ad alcune corde fisse. McDonnel morirà proprio per essere risalito oltre il traverso per tagliare le corde per liberarli. O almeno così sembra: le versioni della storia da qui in poi sono discordanti e contraddittorie.

Sono ormai le 15 del 2 agosto. McDonnel, che otterrà postumo il premio Best of ExplorersWeb 2008 per il suo "incredibile coraggio", è già morto, Confortola, dopo aver chiamato aiuto, abbandona i tre e si incammina verso campo 4. È esausto e alla fine crolla addormentato. Van Rooijen, invece, è perso lungo la via Cesen a causa della parziale cecità. Sarà il portatore Pemba Gaylje a soccorrerli entrambi, mentre non c’è nulla da fare per salvare i coreani, il loro portatore e i due portatori che sono tornati lassù per salvarli: una valanga li travolge e li spazza via. L’unico del gruppo che riesce a sopravvivere è Tsering Bhote e poco più avanti anche Confortola sopravvive alla valanga grazie all’intervento, ancora una volta, di Pemba Gyalije che gli fa da scudo con il suo corpo. Ed è proprio Gyalije il vero eroe di questa tragedia se uno ne vogliamo trovare. O per lo meno è l’eroe che sopravvive. Perché salva chi può salvare in barba ai rischi che corre lui in prima persona; perché ogni salvataggio in alta montagna è anche possibilità di morte. Per questo si dice che quando si è lassù, soprattutto nella zona dalla morte, in realtà si è da soli.



Summit K2, il film


Questa è la triste storia del disastro del K2. Toglie il fiato, e The summit la racconta come un pugno nello stomaco. Tra immagini suggestive e reali si dipanano le tappe essenziali di questa condanna alla distruzione. L’80% del documentario, infatti, è composto da immagini vere, azioni vere, volti veri: solo il 20% del film, infatti, è ricostruito usando come location le Alpi svizzere a oltre 3700 metri

E mentre stai lì a guardare quei ricordi in movimento ti rendi conto che stai guardando qualcosa che è già finito, una storia che non puoi cambiare, come la luce delle stelle. Ti raggiunge in ritardo di anni e tu, che sai cosa succederà, non puoi fare niente. Puoi solo guardare sapendo che è tutto vero ciò che vedi, che quelle persone sono vere. Li vedi muoversi, parlare e poi cadere. E quando cadono tu sai che non si rialzeranno.

E a fine film ti resta un dubbio: ma perché hanno scelto quel che hanno scelto? Ma il dubbio reale è uno solo: “avrei fatto la sua stessa scelta senza il senno di poi?”. E la risposta, al 90% delle volte è, sì.

Ed è forse questo il vero trionfo di The summit: rendere chiaro che nella zona della morte il cervello si impiglia nella neve e fallisce in ogni scelta. E non è proprio possibile giudicare quello che è stato, le scelte fatte. Non è possibile stilare una lista dei buoni e dei cattivi, di chi ha fatto bene e di chi ha fatto male. Si può solo tacere e ricordare.


Fonte: Adventure Pakistan


Scheda del film:


Sceneggiatore: Mark Monroe
Regista: Nick Rayan
Produttore: Image Now Films Fantastic Films Passion Pictures Diamond Docs
Durata: 95 minuti
Anno di uscita: 2012

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